Perché anthropos kai antron? (parte seconda)

Perché anthropos kai antron? (parte seconda)

Prosegue la seconda parte dell’articolo di Nicola Carboni che apre la rubrica “perché antropos kai antron?”
… Colui che prova in sé la condizione di α-τοπος viene catapultato in un territorio estraneo, sconosciuto…
 

Perché anthropos kai antron? (parte seconda)

Fuori-luogo, estranee all’usualità del pensiero, sono le rappresentazioni che Glaucone nella sua mente si configura indotto dal domandare di Socrate. Strane infatti le definisce, straniere alla sua abitudine, alla sua normalità, alla sua ovvietà tanto che, in maniera molto ingenua, le riferisce ad altro da sé, come se non fosse coinvolto nell’esposizione del mito. Con un’abile mossa dialettica, Platone, inverte l’α-τοπος dalla parte dell’oggetto (la caverna e i prigionieri) alla parte del soggetto per il quale le immagini sono oggetto. Quei prigionieri sono simili a noi; il prigioniero è Glaucone stesso, i prigionieri siamo noi quando al dato ovvio ci fermiamo e la caverna non è niente altro che la manifestazione dell’ovvio stesso.

Solo nella condizione di dubbiosità, l’uomo può porre dubbi; solo vivendo intimamente l’α-τοπος, essendone coinvolto, che l’uomo può pensare la realtà che ad esso si manifesta in maniera pre-riflessiva, come altro, andando oltre ciò che è stato definito “ovvio”. Questo vuol dire che la ricerca, prima di essere un atto teoretico ed esteriore, è un accadimento esistenziale che avviene nell’esistenza dell’uomo. In quanto inscritta nelle sue potenzialità, l’uomo nella ricerca, cerca se stesso, non come cosa tra cose nel mondo ma nella sua essenzialità, nella semenza del suo esser uomo destinato a non vivere come bruto tra i bruti.

La traduzione più appropriata del passo sopra riportato, se traslato dalla parte del soggetto, dovrebbe dunque essere: la visione mentale di questa immagine e di questi prigionieri mi fa sentire spaesato. Colui che prova in sé la condizione di α-τοπος viene catapultato in un territorio estraneo, sconosciuto, inusuale poiché tutti gli strumenti e i mezzi che usualmente vengono adoperati per orientarsi, si mostrano in-efficaci e in-servibili. Nondimeno è il prezzo per diventare uomini e non rimanere ancorati ad una condizione di servilità o minorità. Accettare di essere α-τοπος, essere s-radicati dal familiare terreno dell’ovvio, è l’ammissione sincera di non sapere, condizione necessaria per cercare di conoscere. Né il sapiente né l’ignorante ha il desiderio di conoscere, ma colui che, consapevole di sé e di non sapere, sentendosi mancante, avverte il bisogno di cercare. Questa tensione di colui che è mancante e in quanto mancante desideroso di cercare è definita da Platone nel Simposio, “amore” rivolto a ciò che non possiede, la conoscenza. Filo-sofia.

Questo cercare si configura come un procedere attraverso lo strumento del chiedere, la domanda; un procedere domandante del quale l’uomo si fa carico come sua possibilità più propria. Tra tutte le domande la più originaria tale da poterla definire Urfrage, è “perché?”: perché le cose stanno così? Il “perché” è ciò che fa irrompere l’α-τοπος nel τοπος, l’ignoto nel noto, la riflessione in ciò che è dato in maniera irriflessa ma che apre alla θαυμαζω, la meraviglia, il sentimento che nasce dallo stupore e sorpresa per una cosa o una situazione nuova, stra-ordinaria, inattesa. È la meraviglia per l’infinita complessità del reale verso la quale si viene investiti da una sensazione di vertigine, ma nella quale è riposta, ben nascosta e velata, la bellezza di un mondo del quale l’uomo è parte integrante qualora nel difficile cammino del cercare si getti.

Nicola Carboni

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