Se disancorata dalla struttura ontologica, per la teoria delle Idee, il problema del terzo uomo, de facto, conduce a delle conseguenze che Platone non avrebbe esitato a definire terrificanti.

Il problema del terzo uomo: regressus in infinitum e il paradosso della ragione (settima parte)

Abbiamo visto in precedenza come il pericolo del regressus in infinitum sia scongiurabile solamente se alla copula “è” di una asserzione del…
 

Il problema del terzo uomo: regressus in infinitum e il paradosso della ragione (settima parte)

Vedi le altre parti dell’articolo di Nicola Carboni  “Il problema del terzo uomo: regressus in infinitum e il paradosso della ragione”

Analisi del linguaggio

Sia dato l’enunciato: “x è un cane” x è detto referente, la cosa reale, l’hegeliano “questo qui” immediato e sensibile; “cane” è detto significante, la parola intesa come sequenza fonetica. Fra significante e referente non vi è corrispondenza diretta, ma indiretta di tipo storico-culturale. La parola ha inoltre funzione simbolica, “sta per” la cosa reale e, in quanto simbolo, non si identifica con la cosa stessa. Il significato, secondo la teoria strutturalistica di De Saussure, è l’immagine mentale che nasce ogni qual volta si pronuncia un significante. La natura del significato è universale. Io posso identificare [x] come cane perché lo riconosco appartenente all’universale [cane]. L’universale è ciò che permette di astrarre dal particolare e di raggrupparlo, sotto un unico nome, in categorie classificatorie. Siano [a], [b], [c] dei cani dove a è un chihuahua, b un alano, c un meticcio. Posso formulare gli enunciati “a è un cane”, “b è un cane”, “c è un cane”, perché, astraendo dalle differenze qualitative singolari, i tre elementi rientrano in una definizione che corrisponde all’universale [cane]. Questa ipostatizzazione ha un valore unicamente logico-semantico che trova legittimità nel momento in cui fornisce alla ragione uno strumento per mezzo del quale poter giudicare intorno alla realtà. Veri sono quegli enunciati che corrispondono al reale in quanto “dato di fatto”: la proposizione p [x è un cane] è vera se e solo se x è effettivamente un cane. La condizione di realtà di p è data dal fatto che è possibile riconoscere il particolare [x] per mezzo dell’universale logico a cui appartiene e che non ammette un corrispettivo ontologico. Possiamo dire, seguendo le indicazioni di Willard Quine, che molte cose sono “rosse” (case, tramonti, rose etc.) ma questo non implica che esista qualcosa denotabile come “rossezza”.

L’autopredicazione e il regressus in infinitum

Abbiamo visto in precedenza come il pericolo del regressus in infinitum sia scongiurabile solamente se alla copula “è” di una asserzione del tipo “La bellezza è bella” viene attribuito un valore identitario e non copulativo; possibile questo a patto di presupporre una struttura che impedisca la confusione fra piano ontologico e quello logico. Il problema dell’autopredicazione torna prepotentemente nel momento in cui quel tipo di razionalità sostanziale, della quale il platonismo è testimone, perde legalità. Se l’Idea viene concepita estensionalmente allo stesso modo, per citare l’interpretazione parmenidea, degli oggetti dei quali dovrebbe rappresentarne l’essenza, si trasforma in un ente logico, una classe i cui elementi sono gli oggetti che ricadono sotto di essa. Se la forma P è essa stessa p, dove “è” ha valore copulativo, allora P inevitabilmente è membro di se stesso, quindi autoreferenziale. Se disancorata dalla struttura ontologica, per la teoria delle Idee, il problema del terzo uomo, de facto, conduce a delle conseguenze che Platone non avrebbe esitato a definire terrificanti. L’autoreferenzialità, intesa come autopredicazione dell’Idea in se stessa, è ciò che apre le porte al regresso all’infinito minando la possibilità della ragione di fondare un sapere epistemologico certo, capace di rispecchiare attraverso il pensiero e il linguaggio, quell’ordine, macrocosmico e microcosmico, del quale ne è custode e testimone.

Nicola Carboni

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