Empatia e distanza. Il vuoto di conoscenza nella conoscenza. The good Neighbor

Empatia e distanza. Il vuoto di conoscenza nella conoscenza. The good Neighbor

Immaginate di poter creare, attraverso i moderni strumenti tecnologici, un sistema di controllo panottico tale da poter monitorare ogni attimo della vita di una…
 

Empatia e distanza. Il vuoto di conoscenza nella conoscenza. The good Neighbor

Immaginate di poter creare, attraverso i moderni strumenti tecnologici, un sistema di controllo panottico tale da poter monitorare ogni attimo della vita di una persona. Quanto è possibile conoscere quella persona pur essendo così sotto controllo? A questa domanda The Good Neighbor, film del 2016 diretto da Kasra Farahani, fornisce una interessante risposta.

Ethan e Sean, i due giovani protagonisti, vogliono condurre un esperimento psicologico: installano un complesso sistema di telecamere nella casa del vicino, l’anziano Harold, in maniera tale da studiare le sue reazioni davanti al soprannaturale. La tecnologia che installano infatti può anche interagire attivamente facendo sembrare la casa infestata dai fantasmi. La trama del film è caratterizzata da una ambiguità di fondo: la verità non è mai ciò che appare. Harold che, all’inizio del film, sembra avere tutti gli atteggiamenti del serial killer in realtà è un uomo disperato che ha perso la moglie e che si sta lasciando andare; Ethan che sembra un bravo ragazzo, durante lo svolgimento del film, si caratterizza come una personalità disturbata da narcisista patologico, manipolare e maniaco del controllo che non vuole esercitare solo sulla sua “vittima designata” ma anche su Sean.

L’unico luogo in cui i due ragazzi non hanno posizionato telecamere è la cantina, luogo in cui Harold passa molto tempo e nel quale pensano che si possa trovare qualcosa di compromettente, (cosa che anche lo spettatore è indotto a pensare) e nel quale invece si trovano i ricordi della sua vita passata. Questa serie di ambiguità si protrae fino al tragico suicidio di Harold. Ben lungi dall’essere spaventato dai “fenomeni paranormali” messi in atto dai due ragazzi, li interpretava come “segnali” della moglie deceduta che lo chiamava a sé.

Le riflessioni offerte dal film sono molteplici, tuttavia voglio soffermarmi e analizzare in maniera più estesa la domanda posta in precedenza: può un controllo panottico, come quello descritto dal filosofo inglese Jeremy Bentham (che nella nostra contemporaneità è tecnologicamente possibile), portare alla conoscenza dell’Altro? Anzitutto devono essere accantonate qualsiasi tematiche di tipo   psicologico (perché voler conoscere completamente una persona?) del rapporto fra volontà di controllo e disturbo narcisistico di personalità peraltro già rilevato dalla trama del film, al fine di circoscrivere la riflessione al puro ambito filosofico e fenomenologico.

Il tentativo di Ethan e Sean di conoscere Harold è destinato a fallire già in partenza. Si pongono da un punto di vista completamente esterno: giocano a fare gli scienziati in un laboratorio con l’intenzione di dimostrare ciò che davano come presupposto “il vecchio Harold è un folle serial Killer” pertanto ogni loro osservazione è predeterminata dall’ipotesi di partenza, leggendo ogni azione della “cavia” in funzione di essa. Non avevano tenuto conto della storia, della specificità della persona che trasforma qualsiasi X (poichè Harold slegato dalla sua storia, era ridotto a matematica X), in vita vivente fatta di vissuti, desideri, speranze etc, ovvero in tutto ciò che non può essere conosciuto attraverso una visione di tipo oggettivante.

Tuttavia la tematica è molto più complessa rispetto a quella elencata sopra. Va a toccare infatti, le condizioni di possibilità di conoscere l’Altro da Sé, l’Alter-Ego, e del rapporto con l’Alterità. Sarebbe da sottolineare come anche la conoscenza di Sé comporti notevoli difficoltà sia da un punto di vista  psicologico (la grande tematica ed incognita dell’Es) che filosofico come ben sottolineato da Kant intorno alla differenza che intercorre fra Coscienza di Sé e Conoscenza di Sé, due concetti per nulla coincidenti e coimplicanti.

Parlare di conoscenza dell’Alter-Ego impone di parlare di quel “penoso enigma” – così definito da Edmund Husserl, che è l’Einfühlung, l’Empatia che designa un genere di atti nei quali si coglie l’esperienza vissuta da un Altro. Edith Stein in Zum Problem der Einfühlung (Sul problema dell’Empatia) parla di una duplice struttura che interviene ogniqualvolta che un vissuto estraneo si “rende presente” come contenuto della nostra coscienza. Mi rendo conto, prendo coscienza, che l’Altro è felice, è triste etc. Come si struttura questa “presa di coscienza” in me del vissuto dell’Altro? La duplicità è tale poiché l’empatia è originaria (che ha carattere dell’immediatezza) dal lato dell’atto (il soggetto empatizzante rende presente alla sua coscienza il vissuto dell’Altro) ma non originale (che ha carattere dell’essere mediato) dal lato del contenuto (poiché il contenuto è il vissuto dell’Altro). Questo significa che, in quanto determinata nel lato del contenuto dalla mediatezza, l’empatia non elimina la distinzione tra i soggetti in relazione, anzi la conserva e la presuppone come ricchezza costitutiva dell’Altro colto nella sua diversità.  Einfülung è un concetto ben distinto da Eins-fühlung, il sentirsi uno, Unipatia o completa identificazione con l’altro che si esprime in frasi come “So come ti senti”. Oltre a essere una grande presunzione, fenomenologicamente impossibile, è anche pericoloso perchè conoscere completamente l’altro comporterebbe all’annullamento di ogni differenza fra Ego e Alter-Ego.

La Stein parla di uno spazio incolmabile che garantisce l’individualità e originato dall’impossibilità di una completa identificazione, il “bei” lo stare presso l’Altro senza diventare o inglobare l’Altro. Una dialettica spaziale di lontananza/vicinanza che è simile al concetto di “als ob” come se di Carl Rogers che definisce l’empatia come un “sentire il mondo più intimo dei valori personali dell’Altro come se fosse il proprio, senza mai perdere la qualità del come se[1].

Questo spazio di inconoscibilità, nel film è metaforicamente rappresentato dalla cantina, l’unico luogo dove non ci sono telecamere ma che rappresenta la più autentica natura di Harold che gelosamente tiene nascosta.

La salvaguardia della diversità è condizione necessaria per la salvaguardia dell’identità. Per tutto quello che riguarda l’essere vivente in generale, vale il principio degli indiscernibili postulato da Leibniz secondo il quale in natura non esistono due enti che siano uguali.

L’assoluta conoscibilità è possibile solo nella quantità numerica per la quale, come in una equazione, la X è ciò che non è ancora conosciuto. La vita però è qualcosa di molto più ricco del freddo numero. Accettare questo significa accettare che esisterà sempre qualcosa dell’Altro che non sarà conoscibile. Di certo una sconfitta per la cavalcante e onnipervasiva ragione umana, ma altresì una benevola sconfitta.

  [1]Carl Rogers, La terapia centrata sul cliente, Giunti Editore, Milano, 2013 p. 89

Nicola Carboni

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