IL SENSO PERFETTO (prima parte) Di Nicola Carboni

Il senso perfetto (prima parte)

La scomparsa dei sensi, le finestre che mettono in relazione l’Io con il non-Io, determina una progressiva perdita di identità: noi siamo in virtù della possibilità di poterci relazionare agli altri e al mondo. Qualora venisse meno tale possibilità, la chiusura…
 

Il senso perfetto (prima parte)

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Il corpo è l’unico mezzo mezzo che io ho di andare al cuore delle cose Marleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile

Durante una sconosciuta e improvvisa pandemia che spoglia gli esseri umani degli organi di senso uno chef, Michael, e una epidemiologa, Susan, intrecciano la loro storia d’amore al lento ma inesorabile collasso del mondo. È possibile ascrivere The Perfect Sense,  del 2011, diretto da David MacKenzie, nella categoria dei film apocalittici, tuttavia induce a riflessioni che vanno ben oltre la storia raccontata.

La scomparsa dei sensi, le finestre che mettono in relazione l’Io con il non-Io, determina una progressiva perdita di identità: noi siamo in virtù della possibilità di poterci relazionare agli altri e al mondo. Qualora venisse meno tale possibilità, la chiusura monadistica in sé porterebbe alla deflagrazione del sé. Da un punto di vista esistenzialistico, come sottolineato da Heidegger, il nostro essere-nel-mondo è originario e pre-riflessivo tale per cui il nostro rapportarci non ha il carattere dell’occasionalità ma dell’Esistenza stessa,  una continua tensione verso qualcosa che è fuori di noi che assume la connotazione di Alterità.

Parallela alla perdita dell’identità è il disgregarsi del tessuto sociale. Durante il film l’umanità perde per prima l’olfatto (dopo una crisi di disperazione), poi il gusto (dopo un improvviso attacco bulimico di cibo), poi l’udito (dopo un attacco di rabbia) ed infine la vista. Rimane il tatto.

Nell’ultima scena, della quale vorrei proporre una interpretazione, Michael e Susan, dopo una furiosa lite avvenuta poco prima che perdessero l’udito, si ritrovano e si abbracciano. Per un osservatore esterno sarebbero apparsi come due normalissimi amanti, in realtà erano diventati due “corpi” senza possibilità di vedere e di ascoltare. Nel loro abbraccio semplicemente “erano presenti”.

Perché rimane solo il tatto? Può essere il tatto il “senso perfetto” che dà il titolo al film? E se la risposta è affermativa, perché il tatto può essere definito “senso perfetto”? Anzitutto parlare di tattilità significa porre a tema il concetto di “corpo” poiché, più di ogni altro senso, il tatto è inerente a esso. Il concetto di corpo ha una storia filosofica controversa e affascinante; da un punto di vista gnoselogico possiamo osservare un percorso di rivalutazione di tale aspetto. Platone, influenzato da dottrine orfiche e pitagoriche, nel Fedone definisce il corpo  una “tomba” in quanto coincide con la pura materialità soggetta al mutamento. All’opposizione  ontologica σωμα – Ψυχή (soma – pshyche, corpo – anima) corrisponde l’opposizione epistemologica δοζα – επιστήμη (doxa – episteme, opinione – scienza).

Il corpo, in quanto veicolo dei sensi e delle passioni, era l’origine dell’errore e dell’ignoranza a cui si aggiungerà, con il pensiero della Patristica, il concetto di “peccato”. Nel contemptus mundi vi è incluso in maniera eminente il contemptus corporis.

Il dualismo cartesiano fra res cogitans e res extensa porta a compimento un percorso di separazione fra corpo e mente già in atto da molti secoli.

«Ora non ammetto se non quanto sia vero necessariamente: sono dunque, precisamente soltanto una cosa che pensa, e cioè una mente o un animo o un intelletto o una ragione … non sono di certo quel complesso di membra che vien chiamato corpo umano» [Cartesio, Meditazioni Metafisiche]

La riduzione del concetto di evidenza all’atto coscienziale dell’Io Penso risultante dalla sospensione dell’assenso, dal porre il dubbio su qualsivoglia realtà inindagata e accettata come ovvia, pone ulteriori dubbi: se posso esser certo solo del Cogito e delle sue cogitationes, quale statuto ontologico rimane agli oggetti della realtà esterna, se non quello di “fenomeno”?

Il modo più appropriato per definire “fenomeno”, restando il più fedeli possibili all’etimologia del termine, è “ciò che si mostra (o appare) nel modo in cui si mostra per colui che lo accoglie nel suo mostrarsi”: ovvero gli atti conoscitivi non sono rivolti alla “cosa in sé”, kantianamente il noumeno,  ma “alla cosa che appare” che diventa oggetto di “rappresentazione”.

Ciò che permette di “fare un salto” oltre il fenomeno, secondo Shopenhauer è il corpo. Nella sua opera principale “Il mondo come Volontà e Rappresentazione”, teorizza una duplice conoscenza del nostro corpo. Da un punto di vista oggettivo, considerato dall’esterno come “cosa tra cose”, è una rappresentazione del soggetto conoscente che, come tutte le rappresentazioni, sottostà alle forme a priori di spazio, tempo e causalità. Quando viene colto dall’interno come corpo vivo, viene avvertito come movimenti cinestetici, bisogni, tensioni, volontà. L’esperienza somatica è ciò che permette di andare oltre il fenomeno verso la cosa in sé che il pensatore tedesco identifica come Volontà di vita.

Nicola Carboni

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