TRASCENDENCE - Prospettive e rischi del pensiero tecnologico (seconda parte)

TRASCENDENCE – Prospettive e rischi del pensiero tecnologico (seconda parte)

Il problema non è essere tecnofobi o tecnofili e cadere in una delle tante dicotomizzazioni volte solo a creare schieramenti opposti formati da “partigiani” dell’una o dell’altra…
 

TRASCENDENCE – Prospettive e rischi del pensiero tecnologico (seconda parte)

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Il problema non è essere tecnofobi o tecnofili e cadere in una delle tante dicotomizzazioni volte solo a creare schieramenti opposti formati da “partigiani” dell’una o dell’altra fazione, quanto avanzare una seria riflessione sull’essenza della tecnologia. Come sostenuto da M. Heidegger ne La questione della tecnica, “la tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica” e pertanto “non possiamo esperire veramente il nostro rapporto con l’essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a fuggirla” soprattutto perché, per l’essere umano, rappresenta un “destino” “sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza“.

Attraverso tutta la tecnologia, dall’invenzione della ruota ai computer quantistici, l’uomo media il suo rapporto con la natura, creando una seconda natura che rende il mondo, il mondo-per-l’uomo.

Bisogna altresì evitare l’errore di considerare la tecnica come qualcosa di neutrale. “La potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, in una forma qualsiasi di impiego incalza, trascina, avvince l’uomo di oggi. Questa potenza è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione”. Possiamo immaginare alla tecnologia applicata alla creazione di armi di distruzioni di massa, attraverso le quali l’essere umano, imbrigliando le forze della natura, ha forgiato le condizioni per la sua stessa auto-distruzione.

Con la tecnica il pensiero si fa aggressivo (si può ricordare il celebre motto di  Bacone, uno dei padri della rivoluzione scientifica del XVI secolo, “sapere è potere) perché rende ogni cosa, incluso l’uomo, un Bestand, un oggetto da manipolare.

Secondo il pensatore tedesco l’agire tecnico è l’ultimo gradino del progetto occidentale di dominio sulla natura e del suo sfruttamento che trasforma un bosco in una riserva di legname, una montagna in una cava di pietre, un fiume una forza idraulica per produrre energia. Questo processo di impossessamento “costringe alla presenza” non lasciando essere le cose in quanto tali, in quanto oggettifica per l’agire umano, trasforma ogni cosa in oggetto da afferrare, calcolare e controllare.

Per Heidegger l’impossessamento universale dovuto alla tecnica, in quanto destino, fa sì che l’orizzonte disponibile agli esseri umani sia vincolato dalla tecnica stessa finendo per rendere oggetto l’essere umano stesso.

La tecnica, nella sua essenza, è un tipo di particolare di razionalità, congruente e parallela con la razionalità formale dei mezzi-fini, che nel corso della modernità ha fagocitato e assimilato ogni altro precedente modo di pensare e ha reso il mondo, per usare la terminologia di Marcuse, a una dimensione. Questa razionalità che è incarnazione della praxis, poiché il pensiero coincide con l’agire, compisce la realtà stessa come una macchina, un meccanismo ininterrotto dove tutto funziona per realizzare un più complesso e efficiente funzionamento. Emblema di questa razionalità è il sistema di produzione delle merci che si esprime in quello che il sociologo tedesco Max Weber definì l’Hockcapitalismus, il capitalismo nato dalla fabbrica Taylorista e Fordista nella quale l’essere umano diventa appendice della macchina come magistralmente mostrato da Charlie Chaplin in Modern Times.

Per esprimere il destino ineluttabile che la tecnica impone all’uomo Heidegger usa la parola Gestell [scaffale] da intendere come una struttura normativa che produce ordine, incasella ogni esperienza e così facendo la normalizza, la serializza, la decontestualizza e rende l’esperienza programmabile a essere riutilizzata in un ciclo perenne povero di senso.

Scriveva Max Weber a conclusione de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905) «Quando l’ascesi [l’etica protestante] cominciò a dominare sull’eticità intramondana, contribuì a edificare quel possente cosmo dell’ordine dell’economia moderna – legata ai presupposti tecnici e economici della produzione meccanica – che oggi determina, con una forza coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli individui che sono nati entro questo grande ingranaggio e forse continuerà fino a che non sarà bruciato l’ultimo quintale di carbon fossile. Solo come un leggero mantello che si potrebbe sempre deporre, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle. Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio… Nessuno sa ancora chi, in futuro abiterà quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri e ideali, o se invece avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importanza convulsamente, spasmodicamente auto attribuitasi. Per gli ultimi uomini potrebbe essere vere queste parole: specialisti senza spirito, edonisti senza cuore. »[1]

[1] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Ed. Bur, Milano, 2003, p. 239-241

Nicola Carboni

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